Yves Bonnefoy e l’Armenia
o il turbamento del ricordo assoluto
A quasi un anno dalla scomparsa del poeta e filosofo Yves Bonnefoy (1923-2016), pubblichiamo la traduzione dal francese (a cura di Minas Lourian) di un articolo dedicato al poeta dalla filosofa e critica d’arte, Chakè Matossian (Belgio), apparso sul quotidiano armeno “Nor Haratch” di Parigi, il 28 luglio 2016.
CD NOVITA’
Il disco, appena pubblicato dalla prestigiosa etichetta Fone’, è il frutto della collaborazione tra la cantante americana, di origini armene Anaïs Tekerian e la chitarrista Anna Garano, incontratesi a New York qualche anno fa . Ansahman – che in armeno significa “illimitato” – è il nome del duo che dà anche il nome al cd. La chitarrista triestina ha arrangiato e rielaborato per la voce di Anaïs e per la propria chitarra, ricca di inflessioni andaluse, le melodie tradizionali armene, alcune molto note, altre sconosciute, raccolte nel disco. In tre brani le due musiciste si avvalgono della presenza speciale del clarinettista siriano Kinan Azmeh. Il duo si è già esibito con successo negli Stati Uniti e in Europa, e partecipa inoltre, eseguendo questo repertorio, allo spettacolo teatrale “Lost Spring”, concepito nel 2015 da Kevork Mourad, artista siriano di origini armene, e da Anaïs Tekerian, come tributo alla memoria del genocidio armeno.
Anaïs Alexandra Tekerian è una delle fondatrici di Zulal, trio armeno a cappella molte volte ospite del WNYC’s New Sound, con il quale ha girato negli Stati Uniti e in Canada, in sale quali il Symphony Space, il Getty Museum, la Library of Congress, e il Kennedy Center’s Millennium Stage. Con la chitarrista Anna Garano si è esibita, tra l’altro, alla Neue Galerie di New York e al Morgenland Festival in Germania. Attrice e scrittrice, oltre che cantante, ha recitato per il teatro e per il cinema nell’area di New York. Il suo ultimo lavoro teatrale, Lost Spring, creato insieme all’artista Kevork Mourad, con musiche di Anna Garano, è stato rappresentato al Mucem di Marsiglia e al Morgenland festival nel 2015. Nata a San Francisco, dove ha frequentato il Liceo francese Lapèrouse, si è diplomata in Studi Teatrali all’Università di Yale. Ora risiede a New York City.
Anna Garano è una compositrice e chitarrista di formazione classica e flamenca di Trieste. Nata a Udine da madre triestina-slovena e padre siciliano, si é diplomata in chitarra al Conservatorio Tartini di Trieste dove ha studiato con Bruno Tonazzi e Pierluigi Corona. La sua prima attività concertistica avviene nell’ambito della musica classica, in formazioni da camera quali il duo chitarristico, il duo flauto-chitarra, il trio flauto-viola-chitarra, il quartetto di chitarre. Dopo aver conseguito la Laurea in Lettere e Filosofia con tesi sulla musica elettronica, scopre e studia, presso l’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparatati di Venezia, le tradizioni musicali extraeuropee, in particolare la musica indiana e araba. Successivamente si reca in Spagna per studiare la chitarra flamenca; uno studio che proseguirà per diversi anni sotto la guida di maestri quali Paco Serrano, Manolo Franco, Antonio Heredia, Emilio Maya, Josè Luìs Balao, Manolo Sanlucar e in particolare Paco Peña. Allo scopo di seguire il suo insegnamento si trasferisce in Olanda e frequenta il corso di chitarra flamenca tenuto da Paco Peña al Conservatorio di Rotterdam. In Olanda inizia a suonare la propria musica in ensemble di stampo world music, collaborando con musicisti di varia estrazione. Tornata in Italia, fonda il gruppo Por los Caminos Flamencos, un gruppo di musica e ballo flamenco con cui ha suonato in Italia e all’estero. Anna Garano si esibisce anche come solista e ha inciso per la Rai e per Radio Capodistria, due emittenti radiofoniche per le quali ha anche realizzato numerosi programmi a carattere musicale. Ha inciso nel 2004 l’album Sombra in duo con il contrabbassista Massimiliano Forza. Nel 2007 scrive le musiche di Come il re di un paese piovoso; cd dedicato ai poeti “maledetti” , inciso in trio insieme alla cantante Alessandra Chiurco e al trombettista Flavio Davanzo. Nel 2008 crea il gruppo Life is elsewhere, con la cantante armena Karina Oganjan e il percussionista sloveno Blaz Celarec, il cui repertorio comprende musica armena, ebraica e gitana arrangiata da Anna Garano. Dal 2010 lavora con la cantante Alessandra Franco, e registra il cd Gioco a nascondere nel 2011. Nel 2012 si trasferisce a New York dove collabora e si esibisce con diversi musicisti (Anais Tekerian, Doug Wieselman, Marc Ribot, Marco Cappelli, Ned Rothenberg, Shane Shanahan, Michela Musolino), in particolare con la cantante Anaïs Tekerian riprende e rielabora il progetto armeno-flamenco. Ne 2014, incide, per l’etichetta salentina Dodicilune, il disco Lessness, disco che alterna composizioni per sola chitarra a brani in duo con Marc Ribot, Doug Wieselman, Flavio Davanzo e Anaïs Tekerian.
Per saperne di più: www.ansahman.com | www.annagarano.com | www.kevorkmourad.com
30 marzo 2016
Interessante intervista con la pianista/compositrice armena di Cagliari Irma Toudjian su Cagliari Art Magazine | Irma Toudjian risiede da lungo tempo a Cagliari ed è impegnata da anni, attraverso la sua professione di insegnante di pianoforte e l’associazione culturale che dirige, nel promuovere iniziative musicali e artistiche di interesse generale, inserendo continuamente anche proposte legate al mondo culturale armeno. E’ da quattro anni delegata locale dell’Unione degli Armeni d’Italia.
La Chorale AKN (Parigi) | Progetto di un nuovo CD di ninna nanne e campagna di crowdfunding
Here’s the project we’ve been working on for the last couple of years on and off and now it’s come to the final stage! The book and CD , Roori: Armenian lullabies to sleep and to put to sleep, will be ready in just a few weeks. You will discover eight lovely Armenian folk lullabies, complete with translations and phonetic transcriptions so that you will be able to sing along and learn them, too. Maral’s working intensively on the artwork and layout of the book. To complete our budget we have just started a Crowdfunding. Any contributions are welcome. No sum is too small, since the idea of the CF is that it will all add up to the amount necessary.
Ահաւասիկ Հայկական օրօրներու մեր ծրագիրը, զոր կը պատրաստենք գրեթէ երկու տարիէ ի վեր։ Վե՛րջապէս կը լրացնենք զայն։ “Րուրի. Հայկական օրօրներ՝ քնանալու եւ քնացնելու համար” գիրք–սկաւառակը քանի մը շաբաթէն լոյս պիտի տեսնէ։ Սկաւառակը կը ներկայացնէ ութ աւանդական ընտիր օրօրներ։ Գիրքը, գեղեցիկ տպագրութեամբ, ամբողջութեամբ նկարազարդուած է Մարալին կողմէ, եւ կը պարունակէ երգերուն թարգմանութիւնները, ինչպէս նաեւ անոնց պարզ տառադարձութիւնները. այսպէս՝ կրնաք զանոնք մեզի հետ երգել եւ սորվիլ։ Ծրագիրը իր յաջող աւարտին հասցնելու համար սկսած ենք հանրային դրամահաւաք մը։ Ամեն նպաստ արժէքաւոր է։ Ա՛յս է հանրային դրամահաւաքներու սկզբունքը. տարբեր մակարդակի բոլոր մասնակցութիւնները միասնաբար կը կազմեն հարկաւոր գումարը։
Voici le projet de berceuses sur lequel nous travaillons depuis bientôt deux ans. Voilà qu’on y arrive ! Le livre-disque “Rouri: berceuses arméniennes pour endormir et s’endormir” verra le jour dans quelques semaines. Le CD inclus dans le livre vous offre huit berceuses traditionnelles délicieuses. Le livre, belle édition entièrement illustré par Maral, inclut les traductions ainsi que les transcriptions phonétiques simples de ces chants, ce qui vous permettra de chanter et apprendre ces berceuses avec nous. Pour mener à bien ce beau projet, nous avons lancé un “Crowdfunding”.
Voici le lien / Here’s the link / Ահաւասիկ անոր ցանցային կապը:
Toute contribution est bienvenue ! C’est le principe même du Crowdfunding : toutes les contributions forment ensemble la somme nécessaire.
28 gennaio 2016 | ore 17:30 | Università Statale di Milano
16 novembre 2015
Sergei Nazarov Centro Russo di Scienze e Cultura Roma
a cura di Afrodite Oikonomidou
Sergei Nazarov, pittore di San Pietroburgo, dedica questa mostra alla Memoria.
Ripercorre un itinerario visivo personale, una sorta di riepilogo che attraversa i suoi più intensi ricordi: immagini tratte dall’infanzia, degli affetti intimi e dei famigliari amati, rappresentazioni dell’Armenia, sua terra natale e delle terre scoperte nei suoi numerosi viaggi, degli affetti intimi e dei famigliari amati, della sua conoscenza della Storia dell’Arte. Un susseguirsi di luoghi, paesaggi e simboli, nel suo vissuto, nell’avventura che lo arricchisce, ma non lo cambia.
La mostra è un viaggio nei ricordi dell’anima di Nazarov, tra cui l’Italia ha un posto d’onore: Venezia, una delle sue città preferite, Firenze, Roma, Amalfi, la campagna toscana o quella siciliana.
Nella diversità delle tecniche usate, il pubblico troverà uno sfarfallio che va dalla tempera su cartone all’olio su tela, la luminosità variabile del disegno a carboncino e dell’acquaforte, la velatura che diventa quasi una speciale foschia argentata, e un segno, a volte morbido e flessuoso, a volte duro, forte di una linea grafica marcata. Le sue nature morte, non prive di umorismo e teatralità, sono visioni stravaganti di uno strano agglomerato di elementi dal repertorio della Storia dell’Arte. Le diverse opere in mostra risultano così affascinanti per quanto capaci di mettere in luce la complessità e le sfaccettature, al di fuori dei luoghi comuni, proprie di Sergei Nazarov.
Acquista così forza il racconto che viene affidato ai paesaggi, piuttosto che ai ritratti; ammaliano i raggruppamenti di frutta, di ceramiche, di conchiglie, di bucrani che riportano alla memoria la tradizione della natura morta, cara ai celebrati maestri Olandesi. Opere che evocano per sobrietà e eleganza, una devozione per l’arte classica. Questa, oggetto indubbiamente di studio e ammirazione da parte di Nazarov, si rivela ancor di più dopo che l’artista ha avuto occasione di vederla e amarla durante le sue lunghe permanenze in Italia.
Sono tre le tradizioni che segnano Sergei Nazarov, evidenti nelle opere in mostra: la scuola di San Pietroburgo, l’Armenia e l’Arte Europea. San Pietroburgo rappresenta lo stato d’animo contemplativo, della ricerca sulla fragilità e della perfezione musicale, di una cultura contraddistinta dal prudente equilibrio. L’Armenia, un simbolo di austerità, è l’arcaica incarnazione del dolore secco, espresso dalle note basse maschili, e dall’eroismo stoico. L’Europa sullo sfondo è l’oggetto di culto, impersona la ricchezza della cultura, i principi classici come l’armonia tra sentimento e ragione.
Nazarov coltiva l’estetica della quotidianità e il realismo, ma allo stesso tempo incoraggia il sogno e lascia trasparire frequentemente il suo romanticismo. L’artista volutamente dimentica il presente, con i suoi “dubbi” e “interrogativi” sulla posizione e le potenzialità reali dell’arte nel giorno d’oggi: per Nazarov, l’arte è indistruttibile, come la natura, mentre il suo linguaggio diventa trasparente sotto la pressione della luce e del silenzio.
Ascoltiamo il silenzio dei dipinti di Sergei Nazarov, l’appena percettibile fruscio delle sue linee, la sua malinconia e la sua felicità assordante nelle sale di Palazzo Santacroce a Roma, a pochi passi da Campo dei Fiori.
Breve nota biografica
Sergei Nazarov è nato nel 1960 a Karabakh in Armenia.
Nel 1978 ha iniziato i suoi studi di pittura all’Istituto d’Arte Serov di Leningrado, diplomandosi nel 1985. Dal 1988 al 1995 ha studiato presso l’Accademia d’Arte di San Pietroburgo, da dove si è laureato.
La sua prima mostra personale è stata organizzata a San Pietroburgo nel 1991. Nel 1992 espone all’Accademia di Belle Arti di Monaco di Baviera, in Germania. Seguono mostre personali e collettive a Mosca (1993), Berlino (1994), San Pietroburgo (1995-1999), Mosca (2002, 2005), Venezia (2011).
Nazarov ha viaggiato in tutto il mondo ma in Italia si sente come a casa. Artista d’una intimità musicale tutta fatta di profondi sentimenti, il pittore russo ha uno studio a Farnese dove si rifugia a dipingere.
I suoi dipinti si trovano in collezioni private in Russia, Europa e Stati Uniti.
Inaugurazione 16 novembre ore 19
Centro Russo di Scienza e Cultura
piazza B. Cairoli, 6 Roma
dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 18.00
14 novembre 2015
Il pittore armeno parigino Roupen partecipa ad una collettiva del Made in.. Art Gallery di Venezia
Invito inaugurazione mostra collettiva
9 luglio 2015 | Venezia Teatro La Fenice – ore 11.00 e ore 15.00
Su richiesta del M° Claudio Ambrosini, compositore, direttore e fondatore dell’Ex-Novo Ensemble, tre compositori armeni dell’ultima generazione partecipano grazie alla collaborazione del Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena di Venezia, alla Maratona Contemporanea che vede quaranta compositori selezionati provenienti da tutto il bacino del Mediterraneo. Le opere sono state commissionate dal Teatro La Fenice per il festival estivo “Lo Spirito della Musica” di cui una giornata è dedicata ogni anno alla musica contemporanea. Quest’anno il tema scelto è stato il dialogo fra le culture ed è dedicato alla novantesima della nascita di Luciano Berio. I tre compositori armeni sono Artur Avanesov, Michel Petrossian e Vache Sharafyan.
Corso di duduk 06-2015 | Duduk Workshop 06-2015
8 giugno 2015
Venezia | Casa del Cinema, ore 17 | Presentazione del libro di Paola Mildonian | “Sayat-Nova – Canzoniere armeno” | con la proiezione a seguire del film di Sergej Paradjanov sul grande trovatore caucasico.
A Milano saranno ancora protagonisti i marmi di Henraux con una mostra straordinaria realizzata in collaborazione e presso la sede di Deloitte Italy. Dal successo de “Il Seme dell’Altissimo” di Emilio Isgrò, simbolo di Expo2015, all’esposizione speciale dedicata da La Rinascente Milano per tutto il periodo dell’Expo alle creazioni di Luce di Carrara, si annuncia un nuovo e importante appuntamento con la mostra “SIHX. Arte e Industria alla corte Deloitte”, che vede giungere a Milano anche le suggestioni della Biennale di Venezia con l’installazione della scultura “Materialità dell’invisibile” di Mikayel Ohanjanyan, opera vincitrice della seconda edizione del Premio Fondazione Henraux per la scultura.
Mikayel Ohanjanyan, fra i protagonisti del Padiglione Armeno, cui è andato il Leone d’Oro della 56.ma Biennale dell’Arte, ha realizzato l’opera attualmente esposta a Venezia in “Armenity” presso gli stabilimenti e con il supporto di Henraux, sponsor tecnico della monumentale installazione. In particolare, l’opera vincitrice della seconda edizione Premio Henraux di Ohanjanyan, in marmo bianco dell’Altissimo, è il punto di partenza della ricerca che l’artista armeno ha sviluppato e il cui risultato si trova oggi alla Biennale.
L’indirizzo, che vede unirsi sempre più, il fare arte, fare industria, promuovere la cultura, trova in Henraux e nella sua Fondazione uno spazio di riferimento sempre più alto e significativo, rinnovato per volere del suo Presidente, Paolo Carli, nel segno di quella tradizione che da più di duecento anni ha reso il nome di Henraux noto in tutto il mondo. Con la mostra di Milano, e grazie alla partecipazione di Deloitte Italy, si dà il via alla terza edizione del Premio Fondazione Henraux per la scultura, l’unico Premio al mondo dedicato alla scultura in marmo.
Sei le opere esposte, nucleo della collezione del Premio 2012 e del Premio 2014, “Arrivederci e grazie” di Fabio Viale, vincitore della prima edizione del Premio, “Materialità dell’invisibile” di Mikayel Ohanjanyan, vincitore della seconda edizione del Premio e, inoltre, “Samarà” di Alex Bombardieri, “Corallo” di Filippo Ciavoli Cortelli, “Frappa” di Francesca Pasquali e “Back To Basic” di Massimiliano Pelletti. “Bue Tractor” la monumentale opera di Mattia Bosco, finalista della prima edizione del Premio, e parte integrante della collezione del Premio stesso, non sarà presente a Milano in virtù del suo peso imponente che avrebbe richiesto modifiche non effettuabili nel sito della mostra per la sua installazione. L’opera sarà documentata nel catalogo edito per l’occasione.
Insieme alle opere del Premio saranno esposti due esemplari della panca Molletta di Baldessari e Baldessari per Luce di Carrara, un progetto fuori scala di un capolavoro del design anonimo. Una rivisitazione di un’icona del nostro paesaggio domestico, qui interpretato in marmo e legno, in collaborazione con Riva1920, e che si presenta quale summa creativa del più ricercato made in Italy.
Con la rassegna presso la sede di Deloitte Italy, la Fondazione Henraux rinnova l’invito a tutti i giovani artisti del mondo a partecipare alla nuova edizione del Premio per l’anno 2016.
Inaugurazione 5 maggio 2015 ore 19:30
Deloitte Italy
via Tortona. 25 Milano
lunedi al venerdi negli orari: 9/12 e 14/18 solo su appuntamento
ingresso libero
Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale alla Repubblica dell’Armenia
09 | 05 | 2015
La Giuria della 56. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, composta da Naomi Beckwith (USA), Sabine Breitwieser (Austria), Mario Codognato (Italia), Ranjit Hoskote (India), Yongwoo Lee (Corea del Sud), ha riconosciuto l’eccezionale qualità della Biennale Arte 2015 con un crescente numero di Partecipazioni nazionali e una particolare attenzione alle questioni geopolitiche più urgenti. La giuria ha inoltre sottolineato come questa Biennale Arte sia la prima a istituire uno spazio dedicato alla valorizzazione dell’aspetto performativo e dialogico come elemento integrante della pratica artistica odierna.
RAI-Radiotre – A cento anni dal Genocidio degli Armeni: “L’Eclisse”, un melologo di Sonya Orfalian
VENERDI’ 24 APRILE 2015 – h. 21.00
Nel giorno della commemorazione internazionale del centenario del Genocidio degli Armeni, RAI-Radiotre manderà in onda, in prima assoluta e in diretta dalla Sala A di via Asiago a Roma, un melologo di Sonya Orfalian, scrittrice e figlia della diaspora armena, nell’interpretazione di Maria Paiato e dell’Anahit Ensemble. A seguire, riflessioni e testimonianze con la partecipazione di Sargis Ghazaryan, Gianni Bonvicini e Manuela Fraire. Conduce Annamaria Giordano.
Ho scritto L’Eclisse avendo in mente e nel cuore la ricorrenza del centenario del genocidio del mio popolo.
E’ un testo pensato per una voce sola – quella dell’attrice Maria Paiato – ma che al tempo stesso evoca e sovrappone una moltitudine di voci: sono le voci dimenticate, quelle di chi è dovuto soccombere, e le voci della testimonianza, i sussurri di chi è riuscito a sopravvivere all’orrore senza fine e ha cercato di opporsi al silenzio crudele della Storia.
L’Eclisse ripercorre, assieme alla storia degli Armeni e del loro olocausto, le intermittenze espressive di una tradizione antica e i miti di creazione del cosmo culturale armeno, componendo in un affresco comune la storia e la mitologia, la memoria e il sogno, il linguaggio della fiaba e quello della realtà più cruda.
Le musiche che attraversano il testo – eseguite dall’Anahit Ensemble – sono opera del compositore e musicologo armeno più venerato in patria e nella diaspora, Soghomon Soghomonian, più conosciuto come Komitas. E la storia stessa di Komitas si identifica con il genocidio degli Armeni: era il 24 aprile del 1915 quando il governo dei Giovani Turchi diede ordine di arrestare e in seguito eliminare tutti i circa duecentocinquanta intellettuali e notabili armeni di Istanbul, cancellando in tal modo i referenti civili e religiosi degli armeni della città e dando così il segnale d’avvio dello sterminio di massa. Komitas fu tra questi martiri.
Sonya Orfalian
Riceviamo e con piacere pubblichiamo:
Gentili signore, egregi signori,
il prossimo venerdì 24 aprile si commemora ufficialmente il centenario dell’eccidio di oltre un milione di armeni, perpetrato tra il 1915 e il 1916 sul suolo dell’allora Impero Ottomano. Quel giorno, il pubblico potrà visitare gratuitamente il Museo delle Culture (MCL) dove, al secondo piano, ricordiamo è attualmente allestita un’esposizione dedicata all’Armenia (“Gli adoratori della croce. Elio Ciol. Fotografie. Armenia 2005″). L’esposizione (aperta fino al 10 maggio) sta raccogliendo consensi unanimi, anche grazie al sostegno della Comunità armena in Ticino, che ha collaborato con il MCL per l’organizzazione di un seguitissimo ciclo di conferenze sulla storia e la cultura dell’Armenia, i cui ultimi appuntamenti sono previsti il 28 aprile e il 9 maggio (v. sotto).
La Comunità armena ticinese ha voluto dimostrare la sua riconoscenza al MCL e alla Città di Lugano offrendo la posa temporanea, nel parco dell’Heleneum, della replica fedele di un khatchkar, una grande stele scolpita di epoca medievale. L’iniziativa dimostra, una volta ancora, «come la cultura e l’arte permettono di commemorare in maniera costruttiva anche le occasioni più tristi, fornendo spunti al dialogo tra le genti», come ha voluto sottolineare la vice-sindaca di Lugano, Giovanna Masoni Brenni.
Le prossime conferenze sull’Armenia al Museo delle Culture:
Martedì 28 aprile, ore 18:00 – «Fiabe e leggende del popolo armeno» | Baykar Sivazliyan, docente di lingua e letteratura armena all’Università degli studi di Milano, conversa con Francesco Paolo Campione, antropologo e direttore del MCL. | A conclusione della presentazione, l’On. Giovanna Masoni Brenni, vice-sindaca della Città di Lugano, porterà i suoi saluti.
Sabato 9 maggio, ore 15:00 – «Dialoghi tra cultura armena e italiana lungo il ‘900» | Agopik Manoukian, presidente onorario dell’Unione degli Armeni d’Italia
L’accesso è gratuito ma il numero di posti è limitato | Si raccomanda l’iscrizione: T. +41(0)58 866 6960; info.mcl@lugano.ch
Museo delle Culture | Heleneum, via Cortivo 24-28 | 6976 Lugano | Tel. +41 (0)58 866 6960 | E-mail info.mcl@lugano.ch | www.mcl.lugano.ch
Abbiamo il piacere di segnalarvi l’uscita sulla rivista letteraria virtuale “Words without Borders” della traduzione in inglese del romanzo “Libro, senza titolo” della scrittrice Shushan Avagyan (1976, Armenia), fatta dalla giovane studiosa e docente di New York, Deanna Cachoian-Schanz, che ha compiuto parte dei suoi studi universitari a Venezia.
Per saperne di più, cliccare il link del sito Words Without Borders
Nota del Traduttore: Nel seguente primo capitolo di Book-Untitled (Libro senza titolo), Shushan Avagyan traccia la cornice sommaria che farà da struttura al resto del suo libro: un incontro immaginario tra due scrittrici femministe del primo ‘900, Zabel Yesayan e Shushanik Kurghinian, giustapposto ad una conversazione tra l’autrice e un’amica e alle riflessioni della stessa autrice su censura, traduzione e letteratura.
Composto di frammenti, “Preface, or We As Two Separate Planets” (Prefazione, o di Noi Come Due Pianeti Separati), facendo eco al titolo di una poesia di Kurghinian, presenta una serie di voci disseminate e non meglio identificate che si continueranno ad udire per il resto dell’opera.
Nel capitolo vengono introdotti versi provenienti dalle lettere scritte in prigione da Zabel Yesayan, dirette alla figlia Sophie, e la conversazione tra Avagyan e l’amica Lara che stanno cercando di ricostruire le tracce della storia perduta delle due scrittrici.
Quali sono i versi che permettono di distinguere le diverse trame narrative, il presente e il passato? Chi parla? Come possiamo distinguere le voci e perché non sono distinguibili? Chi ha scritto e chi sta scrivendo? A chi appartengono queste parole? Che cosa è storico, che cosa è immaginario? C’è una differenza? Che cosa è stato censurato e che cosa continua ad esserlo? Questi sono alcuni dei quesiti che Avagyan pone nel primo capitolo di Book-Untitled.
*In questo estratto, Avagyan si riferisce ad una serie di scrittori, opere e leggende armene che includono Barpa Khachik di Zabel Yesayan, la leggenda armena di Akhtamar, origine della “Lampada di Tamar”; Ringing of the Dawn (Arshaluysi Ghoghanjner/Lo scampanio dell’alba), prima e unica opera poetica di Kurghinian ad essere pubblicata; titoli dei capitoli che evocano la poesia di Kurghinian; e l’Arlez di Semiramis, che affiora dal mito Zoroastriano e armeno.
[ Traduzione della nota in italiano di Elisa Azzolin ]
Gregorio Sciltian a Villa Bardini, Il pittore esce dall’oblio
112 opere esposte dal 3 aprile al 6 settembre
Grande mostra antologica dedicata alla figura di Gregorio Sciltian (Rostov 1898 – Roma 1985), il pittore russo e poi naturalizzato italiano, che in fuga dalla terra natale in seguito ai rivolgimenti della Rivoluzione Bolscevica e dopo un lungo pellegrinare nelle capitali europee, giunse in Italia nel 1923 dove ebbe modo di operare per tutta la vita, salvo una breve parentesi parigina (1927/33). Si intitola ‘L’illusione di Sciltian. Inganni pittorici alla prova della modernità’ e sarà allestita a Villa Bardini dal 3 aprile al 6 settembre per iniziativa della Fondazione Parchi Monumentali Bardini e Peyron e dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, con il patrocinio del Comune di Firenze e in collaborazione con la Fondazione Il Vittoriale degli italiani e Unicoop Firenze.
Alla presentazione, stamani, alla stampa sono intervenuti il Presidente della Fondazione Bardini Peyron Michele Gremigni, il Vice Presidente dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze Pierluigi Rossi Ferrini, il Consigliere e Responsabile artistico della Fondazione Bardini Peyron Carlo Sisi, l’autore di uno dei saggi in catalogo Paolo Baldacci, il curatore della mostra Stefano Sbarbaro.
L’ esposizione, a cura di Stefano Sbarbaro, interrompe il lungo periodo di oblio nel quale sembrava essere caduta la produzione del maestro di cui ricorre il trentennale della scomparsa. Negli ultimi anni però molti dei suoi lavori sono comparsi in importanti progetti espositivi dedicati alla produzione artistica nel periodo tra le due guerre, segno che la necessità di una piena ricostruzione critica di una delle figure più affascinanti e discusse del panorama culturale italiano del Novecento, fosse ormai pienamente matura.
La mostra, organizzata in sezioni tematiche pensate per meglio evidenziare gli aspetti che maggiormente caratterizzano la singolare visione etica ed estetica dell’artista, prende in esame l’intera sua produzione creativa che si sviluppa lungo un arco temporale di oltre mezzo secolo. Sono esposti 112 lavori, tra pitture ad olio, disegni, bozzetti e figurini teatrali e opere grafiche, provenienti da importanti musei nazionali (Uffizi, Musei Vaticani, GNAM e GAMEC di BG) e da prestiti privati. Le eccezionali doti di ritrattista di Sciltian sono testimoniate da una galleria di personaggi di notevole rilevanza storica e artistica per il nostro paese tra cui Il Duca Luigi Grazzano Visconti, Galeazzo Ciano, Eduardo e Peppino de Filippo, Ivo Pannaggi e Romeo Toninelli. Il catalogo edito da Polistampa con saggi di Stefano Sbarbaro, Paolo Baldacci, Matteo Bertelè.
La collezione privata dell’artista, costituita anche da alcune rilevanti testimonianze di pittura del 600 e 700 lombardo, è stata concessa in prestito dal Vittoriale degli Italiani di Gardone Riviera (Brescia) che ha collaborato attivamente al progetto. Accanto a lavori di pittura a olio, la mostra non tralascia altre espressioni creative come il disegno, la stampa litografica e altri generi in serie che abbondano nella produzione dell’artista, oltre a fotografie e oggetti provenienti dal suo atelier. Lungo il percorso espositivo, con l’intento di ricollocare Sciltian nel suo tempo, oltre ovviamente gli altri componenti del gruppo I Pittori Moderni della Realtà (Pietro Annigoni, Alfredo Serri, i fratelli Bueno e Carlo Guarienti) sono presenti opere di altri autori selezionate sulla base di un rapporto di analogia, di ispirazione, di affinità o di contrasto stilistico tra cui: Giorgio de Chirico, Carlo Socrate, Renato Guttuso, Aligi Sassu, Antonio Donghi, Vinicio Paladini e Mimmo Rotella.
Riccardo Galli | Responsabile Ufficio Stampa Ente Cassa di Risparmio di Firenze
FONDAZIONE PARCHI MONUMENTALI BARDINI E PEYRON
Intervista di “Nor Haratach” con il direttore del Centro studi del canto liturgico armeno e dell’Ensemble vocale AKN di Parigi, maestro Aram Kerovpyan
L’Ensemble vocale di canti liturgici armeni AKN di Parigi, ha partecipato il 3 settembre scorso alla 47ma edizione del Festival delle Nazioni di Città di Castello (Umbria) che era dedicato alla musica e ai musicisti armeni. Il direttore di AKN, musicologo e maestro-cantore della Chiesa Apostolica Armena S. Giovanni Battista di Parigi, Aram Kerovpyan, è impegnato da anni a condurre una battaglia solitaria e controcorrente, in difesa della tradizione canora monofonica della musica sacra armena. Fenomeno che, dalla seconda metà del XX secolo in poi, viene considerato retrogrado da esponenti della Chiesa e dai musicisti armeni e gradualmente trasformato da essi in canto polifonico.
Di recente è stato inciso un vostro CD dedicato agli inni della Resurrezione. Sarebbe il quinto di una serie dedicata da AKN agli inni della musica sacra armena. Che obiettivi persegue una tale produzione di CD?
Il Centro AKN, come ha detto, ha tuttora prodotto 5 CD mentre un altro CD era stato prodotto anni fa dal Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena di Venezia, con la collaborazione eccezionale del compianto Padre Vertanes Oulouhodjian, maestro-cantore dell’Ordine dei Padri Mechitaristi di Venezia. Questo è il risultato di anni di lavoro continuativo, empirico e di ricerca. Ora è in preparazione la produzione di un sesto CD dedicato ai canti dell’ufficio liturgico funebre, mentre sono in fase di editing di un paio di CD che saranno prodotti sempre in collaborazione con il Centro Studi di Venezia, e che sono le ultime incisioni fatte insieme alla magnifica voce di P. Vertanes Oulouhodjian, poco tempo prima della sua scomparsa prematura, dedicati alla ricca e suggestiva cerimonia liturgica dell’apertura della Porta e ai canti della settimana santa, secondo la tradizione Mechitarista di Venezia.
Come vengono accolti queste produzioni dal pubblico armeno e non?
Premetto che tali produzioni sono concepite per un uditorio al di fuori degli schemi consolidati nell’ascolto della musica maggiormente diffusa. Il nostro intento è quello di cercare di trasmettere qualcosa con onestà… C’è naturalmente un problema di distribuzione. Non avendo un distributore, le produzioni di AKN vengono diffuse attraverso il proprio sito internet, tramite sostenitori e simpatizzanti del nostro lavoro, durante i concerti, in Francia, in Europa e negli Stati Uniti. Mentre in Armenia, rispetto alla Turchia la diffusione dei nostri CD è estremamente limitato.
Gli inni rappresentano una tradizione ecclesiale mentre l’Ensemble AKN è una compagine che si trova al di fuori delle strutture ecclesiali. Come viene colto questo fenomeno dalle strutture della Chiesa?
Le strutture ecclesiali pare abbiano dimenticato e rinunciato a uno degli elementi costitutivi del proprio patrimonio culturale che è l’aspetto tradizionale orientale del canto liturgico. Grazie a ciò s’indebolisce anche la memoria collettiva di questo patrimonio. Siamo giunti alla convinzione che per la Chiesa armena l’insegnamento musicale della tradizione sacra non abbia ormai nessun valore o importanza. Naturalmente vengono applicati l’insegnamento di canti, quello della notazione musicale e l’esecuzione di canti polifonici, mentre le pratiche della tradizione modale sono completamente ignorate o applicate secondo schemi di insegnamento della musica occidentale. Ecco il motivo per cui il Centro AKN lavora in modo isolato e indipendente da più di 25 anni, ed è destinato a continuare, solitario, il suo percorso.
Ha fatto cenno agli approcci orientali e occidentali dell’insegnamento delle strutture modali della musica armena. Potrebbe brevemente approfondire questo tema? E quale ruolo ha in questo schema la scuola di tradizione “costantinopolitana”?
L’approccio di AKN non è di tipo orientale e si colloca al di fuori di una contrapposizione tra due concezioni formatesi nel corso degli ultimi decenni: quella per intenderci cosiddetta “scuola nazionale”, considerata vicina alla concezione occidentale in contrapposizione con quella definita “scuola orientale”, considerata circoscritta nella famiglia delle musiche classiche ottomane e quindi di tradizione interpretativa conservata oggi in ambito turco. La nostra non è una scelta o una ricerca che sta a metà strada tra le due concezioni! In parole povere, l’uso delle strutture modali del canto tradizionale viene considerato vicino alla tradizione turca e quello che segue gli schemi di insegnamento occidentale viene considerato musica “nazionale”. Il Centro AKN non ha scelto né l’una né l’altra concezione ma piuttosto cerca di capire l’essenza di quella musica, il contenuto della propria struttura modale, di capire cosa riflettono o esprimono le melodie cantate in grabar (armeno classico), perché eseguire canti in greco, turco o curdo con un dato modo musicale non sarà uguale al canto eseguito in grabar e con lo stesso modo musicale; di conseguenza bisognerà scegliere dal repertorio il linguaggio interpretativo adeguato all’interno del sistema modale orientale che ha un suo metodo di classificazione particolare dei modi e non delle scale musicali, e che viene applicato nelle stesse forme da tutti.
Ha parlato di approcci occidentali e orientali dell’arte canora orientale, dove quest’ultimo viene inteso come espressione della musica ottomana. In queste classifiche che collocazione ha l’arte canora armena?
Insisto sul fatto che quello armeno si collochi assolutamente nel sistema modale orientale ma senza dover scimmiottare un ambiente sonoro orientaleggiante. In particolar modo bisogna cercare e avvicinarsi il più possibile ad alcuni connotati gradualmente persi durante l’ultimo quarto del XIX secolo in poi, grazie al predominio dell’ambito musicale costantinopolitana. Tuttavia, ciò che si sente cantare negli ambienti armeni oggi a Istanbul pur dando l’impressione di carattere turco, a volte anche nella pronuncia, è molto più vicino alla concezione tradizionale rispetto alle interpretazioni eseguite da belle voci addestrate e impostate (spesso polifoniche) degli stessi canti, che risultano essere una semplice prosecuzione di note ma non hanno nessun nesso con il sistema modale di appartenenza e addirittura la lingua interpretata viene difficilmente percepita.
Se volessimo caratterizzare la peculiarità della musica monofonica armena, quale potrebbe essere il suo punto focale per quanto concerne in modo particolare il repertorio degli inni sacri?
Noi studiamo in particolar modo i canti dell’innario che si basano su melodie tipo (formule melodiche) e hanno uno stretto legame con la lingua, perché la parola (in prosa o in versi) fa da sagoma alla forma melodica. Come sosteneva Krikor Datevatsi (Gregorio di Datev, XIV sec.) “nell’inno parola e melodia sono a pari livello”, nel nostro lavoro cerchiamo continuamente la relazione tra i due componenti. Naturalmente non sempre ci riusciamo, ma l’importante è la ricerca che viene compiuta nella trasmissione della “parola” esistente nell’inno, sia letteralmente sia attraverso l’ethos dell’ambiente sonoro vissuto…
Cosa intende per stato d’animo, ethos dell’ambiente sonoro? Si riferisce per caso alla preghiera?
La preghiera ha un significato molto più largo perché le esigenze spirituali dell’essere umano sono rimaste identiche a quelle che erano anche un millennio fa. Se la musica corrisponde a una data esigenza spirituale essa viene già considerata musica spirituale. Ecco, si colloca in queste continue ricerche il lavoro di AKN.
Su cosa si fondano i sistemi del canto monofonico orientale e l’arte del canto liturgico armeno?
Se volessimo spiegarla in modo molto semplice si potrebbe dire che la musica monofonica o meglio la musica modale ha un lato concreto: si evolve facendo pendere le vibrazioni verso i suoni che tra di loro hanno un’armonia naturale. Nel momento in cui i suoni hanno una correlazione fittizia l’uomo li coglie in modi diversi. D’altronde l’uomo si abitua a tutto e qui si pone una questione di scelta. Per il nostro Ensemble vocale le relazioni tra i suoni si spiegano con semplici numeri, ciò che invece lascia un’impressione diversa sull’uditorio. Ma come “passeggiare” e “orientarsi” in questa correlazione tra i suoni naturali, ecco, questo ha i suoi segreti; cioè capire come avviene il passaggio tra un suono e l’altro, come si forma la melodia, capire se i suoni si susseguono o se si generano tra di loro. L’importante non è la melodia ma ciò che ne facciamo, come nasce e come vive?
In che situazione verte la musicologia degli inni? Ci sono esperti in questo settore?
Per fortuna alcuni musicologi conducono delle ricerche scientifiche oggettive, uscendo sempre più dalla preoccupazione di dover elaborare l’ideologia di una musica “nazionale”.
La Chiesa che ruolo svolge in questo senso?
La Chiesa, nel momento in cui pensa all’importanza del lavoro di ricerca, punta a soddisfare le “presunte esigenze moderne” del mondo esterno, cioè fare in modo che la gente “non si annoi” e tutto sembri piacevole…
Ci sono sufficienti archivi sonori oggi per condurre un lavoro di ricerca?
Ci sono raccolte fatte da individui e da alcune istituzioni (come per esempio il Centro Studi di Venezia) che forse potrebbero insieme formare un archivio sonoro. Anche il nostro Centro ha una sua raccolta.
Per quanto concerne la tradizione orale o la documentazione manoscritta, tra le trascrizioni conservate attraverso la notazione neumatica medievale o la notazione moderna armena del XIX secolo, ci sono ancora inni del repertorio che pongono problemi dal punto di vista interpretativo o della percezione dei diversi gradi, che non corrispondano alla teoria generale del sistema modale esistente oggi?
Ciò dipende da come interpretiamo la notazione neumatica. Per esempio la notazione neumatica moderna armena è basata su un sistema estremamente semplice perché concepita da esperti che conoscevano a fondo questa tradizione musicale, e serve da supporto alla memoria e non per studiarne la musica. Bisogna cercare in quella notazione semplice ciò che era stato cantato nel momento della trascrizione, perché era impossibile rendere attraverso la notazione ogni dettaglio della melodia o del suono. Ed è qui che la notazione ci aiuta ad avvicinarci approssimativamente all’interpretazione. Il resto è affidato alla trasmissione orale che, se scomparsa, non si può fare gran che e quindi la ricerca rimane entro confini limitati. Per esempio negli anni Sessanta del XIX secolo, il musicologo Yeghia Dndessian che era di formazione occidentale, definiva “conservatori” i maestri cantori che non accettavano di correggere alcuni errori interpretativi e non “corruttori” o “falsari”, perché costoro cercavano di conservare ciò che li era stato trasmesso in modo corretto o falso; e se venivano ignorati, insieme ai loro errori veniva cancellato anche ciò che c’era di buono e corretto tradizionalmente parlando. In quanto musicologo era conscio di questo rischio. Purtroppo oggi mancano figure di tale spessore.
E Gomidas (Komitas) che è un idolo per il mondo armeno, che approccio ha avuto in questo senso?
Purtroppo sono i cosiddetti “Gomidassiani” o i cultori di Gomidas che l’hanno trasformato in idolo, in modo tale che a volte si fa addirittura fatica a vedere ciò che Gomidas vuole passare come messaggio, considerato che ormai il suo lavoro e la sua interpretazione sono mescolati tra di loro. Ci sono parecchi studi che comprovano ciò che sto affermando.
Potrebbe approfondire questo tema?
Gomidas Vartabed aveva la mentalità del suo periodo, quando si formavano nelle scuole musicali di tipo occidentale ed elaboravano offrendo al pubblico in chiave “artistica” elementi scelti da musiche e poesie popolari orientali, perché all’epoca il canto popolare non era considerato arte. Nelle sue rielaborazioni di melodie popolari i risultati sono notevoli. Le sue note critiche sui propri interventi melodici (non parlo qui delle sue rielaborazioni polifoniche) sono estremamente interessanti perché pone sempre l’accento sulla corretta pronuncia delle parole, soprattutto quando si tratta dell’uso di grabar. Per esempio, sia Gomidas sia Ekmalian hanno rielaborato gli stessi canti tradizionali della santa messa, ma i loro interventi e le soluzioni sono molto diversi tra di loro. Comunque oggi non esiste un ambiente favorevole per un dibattito costruttivo perché, come ha sottolineato anche lei, la figura di Gomidas è talmente idolatrata che oltre al totale apprezzamento non si può dire nulla. Sa, c’è ancora gente che continua ad affermare che la musica armena parta da Gomidas… E tutto ciò che precedeva? Voglio dire che purtroppo anche Gomidas è prigioniero di una tale “politica culturale dittatoriale” che, aldilà delle immani sofferenze vissute, le sue ossa non trovano pace neanche nella tomba..!
Quale era generalmente l’approccio dell’Armenia Sovietica all’arte canora sacra armena?
Ci sono vari aspetti da considerare nel mondo sovietico. Ricordiamo che ai tempi sovietici in Armenia la musica sacra ha subìto parecchie rovine… Addirittura in certi periodi il Katholicos (Patriarca supremo della Chiesa armena) stesso fu isolato mentre i preti e i diaconi venivano esiliati nei gulag della Siberia. Di conseguenza non si potrebbe parlare di una tradizione conservata mentre tutto era vietato… Una certa tradizione era conservata solo presso certi anziani tra le mura casalinghe. Per quanto concerne la musica popolare, per fortuna i contadini hanno conservato le tradizioni e addirittura continuato a creare nuovi canti. Di seguito, solo ai tempi del Katholicos Vazken I si riavviò un movimento di studio della musica sacra medievale.
Mentre oggi molti degli intellettuali dell’Armenia, dimenticando questi dati storici (addirittura sorpresi quando se ne parla), si dichiarano depositari di un’eredità tradizionale millenaria di musica sacra e rifiutano la realtà storica. Cito un esempio di cui sono stato diretto testimone: molti considerano la tradizione dei canti sacri conservata presso i Mechitaristi di Venezia, la tradizione del monastero di Sevan (riaperto di recente!) accontentandosi semplicemente del fatto che il fondatore dell’ordine Mechitarista, l’Abate Mechitar ci fosse stato di passaggio verso la fine del XVII secolo. In breve, declinando continuamente il termine “nazionale” siamo orientati verso “mondi di fantasia”!
Si applica oggi l’insegnamento del canto sacro tradizionale nella Santa Sede di Etchmiadzin?
Personalmente non ne sono a conoscenza oltre al fatto che il nostro stesso Centro per loro non esiste… Addirittura hanno rifiutato di mettere in vendita i nostri CD presso il negozio librario della Santa Sede, asserendo che la nostra musica non corrisponda al loro stile. D’altra parte sono contento che comunque attraverso altre vie i nostri CD circolino tra la gente del paese. In Armenia, fatta eccezione dei musicisti, dei musicologi e delle figure religiose, gli intellettuali di altri settori: scrittori, pittori, filologi e storici dimostrano un grande interesse al lavoro svolto dal nostro Centro.
Quali sono i futuri progetti di AKN?
Nell’immediato vorremmo realizzare la maggiore diffusione dei nostri prodotti, gratuitamente o a cifre simboliche, evitando i classici circuiti della distribuzione e attraverso contributi che stiamo ricevendo, soprattutto in Armenia ma anche in Turchia, dove ci sono armeni “nascosti” o convertiti che vorrebbero essere ribattezzati e hanno tanta sete di nuovo materiale e ispirazione spirituale. Ecco, ci stiamo attivando per progetti in questo senso.
Traduzione di Minas Lourian
L’Oratorio teatrale “Armine, sister” della compagnia teatrale “ZAR”, Istituto “Jerzy Grotowski” (Wroclaw, Polonia) a Londra
Un sepolcro sonoro dedicato alle vittime del Genocidio
Articolo del 28.10.2014, di Jiraïr Jolakian (direttore del giornale armeno Nor Haratch, Parigi) | Traduzione di Minas Lourian
Dal 2 all’11 di ottobre 2014, si sono svolte a Londra le rappresentazioni teatrali della prima tournée europea dello spettacolo “Armine, Sister” della compagnia polacca ZAR. Il lavoro ‘muto’ del regista polacco e direttore artistico dell’Istituto “Jerzy Grotowski”, Jaroslaw Fret, definito da lui stesso un oratorio teatrale, consiste in una coordinamento, “composizione” musicale attraverso esercizi in movimento che ha come perno la musica sacra medievale armena accompagnata da musiche delle tradizioni curda, persiana e turca. La guida della parte musicale armena è affidata ad Aram Kerovpyan.
Lo spettacolo teatrale “Armine, Sister” è dedicato alla storia armena, onora la memoria delle vittime rimaste senza pietra sepolcrale, con la complicità vocale o silente dei paesi civili. Commemora il popolo vittima di un Genocidio. Uno spettacolo che ha la forza di inchiodare, immobilizzare lo spettatore sulla propria poltrona; teatro capace di imporre un momento di silenzio davanti all’evento. Un’espressione cocente in occasione del centenario. Né un scimmiottare e neanche un racconto, ma un’invenzione scenica che ammutolisce la lingua. La parola è superflua. Azione che non ha bisogno di interpretazioni o di spiegazioni. E’ musicale, canora. Canti che ci giungono da secoli lontani. E’ teatrale. E’ teatro. E’ reale. E’ Tragedia. E’ il bozzetto del Medz Yeghern[1] che si realizza sul palcoscenico. I presenti sanno che si tratta di un’invenzione teatrale ma la sofferenza è reale. Silente, senza parola. Vissuta attraverso il corpo dell’attore. Espressa dai suoi movimenti. Azioni teatrali, compagnia teatrale polacca, una lettura polacca del Genocidio armeno. Una liturgia teatrale polacca per ricordare, e non dimenticare il fatto. Una provvisoria pietra sepolcrale scenica e sonora per esprimere attraverso un modo teatrale l’evento, la sofferenza riprodotta e rivissuta sul palco. Narra il crollo di chiese ed edifici, la distruzione delle colonne, lo spostamento delle travi, il terremoto interiore, la caduta dei luoghi, la deportazione. Narra la profanazione del pane, del tonir[2], del lavash[3], il calpestio del corpo cristiano. La profanazione del sangue che sgorga dalle vene e dal corpo. Il melograno si trasforma in testa insanguinata, in cranio spellato, in carne di uomo prestorico orfano dell’utero. Il melograno sgorga sangue che non si tramuta nel sangue del Salvatore, né il pane nel corpo del Signore. Il tempio si trasforma in deserto. Il corpo, cadavere. La sabbia senza infinita in altare sacrificale di corpi inanimati, dove si odono gli inni dei serafini e dei cherubini, interminabili sanctus e alleluia nella sordità dello spazio. La liturgia si celebra in assenza del Signore, del Salvatore.
Il punto di partenza – Come ebbe inizio il progetto drammaturgico “Armine, Sister”
Negli anni 2000, a Wroclaw si organizza la mostra delle fotografie sulle vittime del Genocidio di Armin Wegner , cui pannelli vengono danneggiati a causa di interventi aggressivi e di protesta della locale comunità turca. Inoltre, parte delle fotografie vengono soppresse in seguito a delle pressioni messe in atto dall’Ambasciata turca e dalla comunità ebraica del posto. Questi fatti suscitano la curiosità del regista Yaroslaw Fret. Perché questo atteggiamento di odio da parte di una comunità che non riconosce essere il diretto erede dell’Impero ottomano? E per quale motivo mettere in atto una specie di gara tra vari atti genocidari invece di applicarsi ad una memoria collettiva unificante.
Il titolo del progetto “Armine, Sister”, si riferisce ad una lettera incompiuta e non giunta a destinazione. Perché? Come mai? Domande semplici. Il progetto s’interroga sui motivi del “silenzio dell’Europa”, sull’azione e sull’eredità della testimonianza.
Le iniziative polivalenti della compagnia teatrale “ZAR” – Espressione polifonica di fronte al silenzio internazionale
Dal 2010 le ricerche artistiche del regista polacco Jaroslaw Fret, direttore artistico della compagnia teatrale “ZAR” del rinomato Istituto polacco “Jerzy Grotowski”, sono focalizzati sull’atto di memoria del Genocidio degli Armeni.
La regia scenica rappresenta la storia della deportazione degli Armeni dell’Anatolia e dell’Armenia Occidentale, che ebbe inizio nel XX secolo e di cui era testimone l’Europa con colpevole silenzio, che spesso si trasforma in negazionismo passivo.
Il Genocidio degli Armeni ha 3 sfaccettature: l’eccidio degli Armeni, la perdita di una cultura millenaria, l’esproprio e il saccheggio delle terre e dei beni della popolazione armena. Il lavoro teatrale di “ZAR” si concentra essenzialmente sui primi due aspetti del Genocidio, vale a dire alla memoria delle vittime e alla perdita dei valori culturali plurisecolari. In aggiunta una particolare attenzione è rivolta al silenzio dell’Europa, che attraverso la sua passività, mossa da interessi strategico-finanziari si rende complice alla politica di negazionismo adottata dalla Turchia.
La compagnia “ZAR”, tra il 2010 e il 2012 è stata tra Istanbul e l’Anatolia, visitando vari luoghi storici armeni, in Armenia e Gerusalemme analizzando a fondo l’eredità culturale attraverso incontri con cantanti e musicisti dei luoghi, per conoscere da vicino le tracce di una ricca civiltà del passato, per toccare con mano l’eredità viva delle chiese in rovina o semidistrutte.
Il risultato di queste escursioni viene rappresentato attraverso varie iniziative pubbliche dal gruppo teatrale: mostre fotografiche dedicate alle chiese dell’Armenia occidentale e all’eredità architettonica in rovine; seminari e concerti dedicati alla musica armena; conferenze e dibattiti dedicati al Genocidio e all’eredità culturale.
“Prestare testimonianza ad una cosa già provata”
È il titolo della mostra fotografica di Magdalena Madra che sintetizza il lavoro di ricerca compiuto dal gruppo teatrale. Ci sono prime testimonianze che con il tempo sono state consegnate all’oblio. Attraverso il lavoro drammaturgico, la mostra e i lavori di ricerca si prende l’impegno volontario e di coscienza nel riprodurre in una seconda fase confessionale le prime prove di testimonianza.
LONDRA
La prima di una tournée europea dell’oratorio “Armine, sister”
L’opera teatrale “Armine, sister” veniva rappresentata in Polonia già da un anno, tra Varsavia e Wroclaw, ma ha intrapreso a inizio ottobre del 2014 la prima uscita per una tournée europea partendo da Londra, allestendo lo spettacolo teatrale alla “Battersea Arts Centre” in collaborazione con il “Gomidas Institute” di Londra. La rappresentazione teatrale si svolgeva in una cornice di numerose altre iniziative musicali, espositive e di incontri e dibattiti pubblici promossi dal “Gomidas Institute” e che le facevano da eco e l’accompagnavano.
Prima della rappresentazione, il regista Jaroslaw Fret ha accolto con le seguenti parole significative il pubblico: “Costruire un sepolcro sonoro alla memoria delle vittime del Genocidio armeno, vittime rimaste prive di sepoltura e di preghiera di suffragio”.
Nell’atrio del teatro, una piccola mostra fotografica delle chiese in rovina dell’Armenia occidentale, trasformate o profanate, introduceva o accompagnava il pubblico all’atto scenico. Nello stesso spazio a mo’ di gavit[4], su una tavola era posta del pane lavash che il pubblico poteva assaggiare per vivere insieme un momento di raccoglimento nel ricordo delle vittime dell’eccidio.
[1] “Grande Male”; gli Armeni ricordano così il loro Olocausto, con una parola che vuole dire, insieme, male fisico e morale, ciò che addolora, tortura, uccide.
[2] Fornello tradizionale di coccio sotterraneo.
[3] Tipico pane sottile armeno che viene cotto nel tonir.
[4] Caratteristico ambiente rettangolare dell’architettura sacra armena, anteposto alla chiesa e in asse con la stessa destinato ad usi civili e religiosi.
Per saperne di più: Teatro ZAR | Istituto “Jerzy Grotowski
Intervista di NH a Yaroslaw Fret
“Tacere significa essere complici”
Quando ebbe l’“incontro” con il Genocidio armeno?
L’ “Incontro” è un termine interessante. Sicuramente avvenne 15 anni fa quando per la prima volta visitai la Santa Sede di Etchmiadzin e assistetti alla liturgia eucaristica e ne rimasi folgorato. Fu il mio primo incontro con la cultura armena e non necessariamente con il Genocidio. Con il tempo, non sapevo cosa fare e come approcciarmi con questa cultura. Era registrata da qualche parte nella mia mente. Ero giovane e dovevo attendere altri incontri.
Perché avviene ora la scelta di questo argomento?
Il movente è Aram Kerovpyan. Era la persona giusta. Scoprendolo mi sono convinto che fosse arrivato il momento cruciale per intraprendere il processo scenografico. La scelta non è per niente convenzionale in relazione alle ricorrenze o al centenario del Genocidio.
Ma perché questo progetto e, soprattutto, perché tanto interesse per il Genocidio armeno? Ci sono altri genocidi.
Chi conosce la mia opera teatrale si rende conto che non nutro particolare interesse per il dramma o per le tragedie drammaturgiche shakespeariane, ma per quanto concerne il genocidio, voglio cercare la mia risposta rispetto alle tragedie universali attuali, proporre e condividere con il pubblico delle problematiche, commentare o delucidare fenomeni che non mi lasciano tranquillo. Di fronte a tanto spaventoso orrore non sono in grado di tacere, perché tacere significa in un certo qual modo rendersi complici.
Nel 2005, durante una mostra dedicata alle immagini sul Genocidio armeno di Armin Wegner , danneggiate da un gruppo di Turchi, e quando parte dei pannelli sono stati soppressi sotto le pressioni dell’Ambasciata Turca così come da parte della Comunità ebraica, che non volevano si parlasse di un genocidio che potesse occupare parte di un terreno riservato esclusivamente all’Olocausto, si è maturata in me la convinzione che fosse ormai giunto il momento di occuparmi di questa questione e che non era più possibile rimandare. Ho deciso di rappresentare con altri strumenti il tema tabù del Genocidio armeno. Era importante capire se tali atti vandalici fossero semplicemente dimostrazioni aggressive di odio oppure un’azione programmatica di negazionismo? Com’è noto, nel 2005 la Polonia riconosce il Genocidio degli Armeni e per noi tali atti erano azioni programmate appositamente, perché a differenza di altri paesi che non riconoscono il Genocidio e dove atti del genere potevano essere letti semplicemente come atti vandalici, da noi dovevano essere condannati come espressioni negazioniste di un Genocidio, così com’è il caso dell’Olocausto ebraico.
Noi non evitiamo di approfondire problematiche su fenomeni politici. Ma il nostro principale obiettivo, attraverso quest’opera teatrale, è di presentare al pubblico sotto forma artistica queste problematiche tabù, fornendogli la possibilità di formarsi liberamente una propria opinione.
L’essere polacco ha aiutato a capire meglio la Questione armena?
Senza dubbio! La storia della Polonia, la storia del territorio polacco è senz’altro un valido punto di partenza per decifrare e concepire la Questione armena. Ma io non metto a confronto il Genocidio e l’Olocausto… Non affermo che si trattasse di un Genocidio minore o che fosse il precursore dell’Olocausto.
Il problema è che noi veramente non sappiamo cos’è il genocidio. Tuttavia vogliamo assolutamente conoscere l’entità. Vogliamo narrare qualcosa, testimoniare.
Perché c’è molto spazio dedicato alla musica sacra armena, a quella curda e persiana e molto meno a quella turca in questa opera teatrale? Si tratta di una scelta intenzionale? Quella persiana non ha nessi con l’esperienza genocidaria armena. O ha semplicemente operato una scelta estetica?
La nostra scelta è basata su una sintesi musicale. Non solo mosso dall’aspetto estetico ma avendo fatto considerazioni storiche. Com’è noto, le popolazioni armene e persiane sono state storicamente e culturalmente molto vicine.
La presenza sul palco di un letto, ricorda un elemento dell’Olocausto ebraico.
Ma non ci dimentichiamo che anche Komitas è rimasto inchiodato al letto e che le infermiere delle missioni umanitarie danesi usavano i letti per proteggere gli orfani armeni.
Alla fine della rappresentazione teatrale, si è creata un’atmosfera di muto immobilismo nella sala. Dal pubblico, una signora ha raccolto un pugno di sabbia per portare con sé.
In effetti capitano fenomeni simili. In Polonia, un’anziana si è avvicinata e alzando un secchiello pieno di sabbia l’ha versata sopra la testa. Un’immagine sbalorditiva! Avrà voluto rivivere a suo modo il dramma. Altri si avvicinano e con i resti lacerati del pane lavash coprono il corpo giacente dell’attrice nella sabbia.
(Traduzione M.L.)
Intervista con il prof. Mihran Dabag, esperto armeno-tedesco di genocidi, fondatore e direttore dell’Institut für Diaspora und Genozidforschung (Università di Bochum), condotta dalla redazione di Nor Haratch (giornale in lingua armena di Parigi)
Traduzione di Minas Lourian
“Non si può trasformare la memoria di uno nella memoria di tutti”
Nota della redazione: il 27-28 settembre scorso è stato organizzato per la prima volta a Bucarest, su iniziativa della Prelatura della Chiesa Apostolica Armena del paese un convegno dedicato al Genocidio avendo come tema “l’influenza della I Guerra Mondiale nella formazione della Diaspora”. Al convegno hanno partecipato esperti provenienti da 13 paesi e religiosi dalla Santa Sede di Etchmiadzin (Armenia), dalle comunità armene di Teheran e Damasco. Era presente anche il fondatore-direttore della cattedra di studi genocidari dell’Università di Bochum (Germania), prof. Mihran Dabag, cui intervento e singolare approccio metodologico pongono spesso seri interrogativi in relazione alle iniziative promosse per la commemorazione del centenario del Genocidio armeno. Tale approccio ci ha indotto a condurre la presente intervista.
NH: Come spiega la memoria ed il pensiero multipolari dell’Unione Europea. Quali proposte si possono avanzare nel merito?
MD: Mentre prima l’Occidente era concentrato sulla sola memoria dell’Olocausto, oggi i paesi dell’Europa dell’Est esigono, dopo le tragiche esperienze staliniane, che anche la loro memoria faccia parte della cultura e della politica della memoria. Oltre al fatto che la politica unipolare della memoria non potrà mai avere un futuro prolungato nel tempo. La memoria dovrebbe essere multipolare, dove vanno ascritte più esperienze possibili. Secondo la mia visione questa questione importante esige un’analisi profonda. La formazione di una memoria multipolare si sta gradualmente sviluppando già prendendo in considerazione l’esigenza dei paesi europei dell’Est. Questo processo è una necessità e forse l’unico modo per attenuare la lotta di predominio tra le varie memorie.
Chi sono i fautori della teoria unipolare?
L’Unione Europea creata come conseguenza della II Guerra mondiale e dell’Olocausto ebraico si è basata su una politica di memoria unipolare che ignorava l’esperienza della I Guerra mondiale. Dagli anni Novanta in poi, questa politica di memoria unipolare si è relativizzata con l’arrivo di nuovi paesi membri dell’Europa dell’Est portando con sé la pressante memoria dell’esperienza dell’epoca staliniana. A questa esigenza si sommava anche la richiesta di memoria di altri popoli che avevano subìto atti genocidari.
Oltre tutto, le memorie si basano sull’esperienza di trasmissione attraverso la narrazione diretta. Cioè senza l’esperienza e la sua trasmissione non può esserci memoria; questa è una questione di principio altrimenti la memoria si riduce a mero messaggio di tipo moralistico dove ormai carnefice e vittima perdono la loro identità. In questo modo, secondo me, anche la memoria dell’Olocausto ebraico corre dei rischi.
E quali sono le esperienze storiche significative che creano la multipolarità in Europa?
Il noto politologo tedesco Claus Leggewie proponeva un nuovo concetto della memoria al cui centro sta l’Olocausto con sette cerchi concentrici e dove assieme ai gulag staliniani e al colonialismo il quarto cerchio riguardava il Genocidio degli Armeni. Ma più tardi, il politologo ha introdotto una variazione definendola memoria delle guerre e delle deportazioni che includeva anche la memoria dei Tedeschi deportati dopo la fine della II Guerra mondiale.
La mia proposta sarebbe stata un concetto di memoria multipolare con quattro cerchi, interconnessi tra di loro per via dell’esperienza di gruppi soggetti all’oppressione di un potere brutale:
- L’esperienza del Genocidio armeno nel contesto della I Guerra mondiale;
- L’Olocausto ebraico nel contesto della II Guerra mondiale;
- Il regime staliniano e i gulag;
- Il colonialismo.
Però la sua proposta è concentrata sui gravi atti di crimine contro l’umanità del XX secolo. Perché non considera le tragedie che l’hanno preceduto?
Perché per la prima volta è la vittima passiva che diventa l’elemento centrale della storia e la base della memoria e non in generale le vittime o gli eroi nazionali. Oltre al fatto che il Genocidio è un fenomeno del XX secolo.
Dove vanno cercate le basi di una cultura della memoria?
In realtà, la memoria collettiva quale elemento identitario secondo il Vecchio Testamento è una “scoperta” ebraica. E’ capitato anche agli Armeni dover sviluppare una cultura della memoria perché partendo dalle stesse basi teologiche avevano creato una tradizione (o narrazione tramandata) di memoria.
Intende dire che la memoria ha un fondamento religioso?
Certamente. Secondo il Vecchio Testamento, non ricordare è essere condannati.
Invece il fenomeno oggi è un concetto separato dalla fede?
Sicuramente è così ma separare il concetto non significa rinunciare in assoluto ai fondamenti religiosi.
Può spiegare la questione della creazione della ‘Casa della Storia Europea’, che ignora il Genocidio armeno e parte dall’anno 1917?
Alcuni anni fa, l’Unione Europea ha votato un provvedimento per la creazione della Casa della Storia Europea a Bruxelles, la cui inaugurazione è prevista tra non molto. L’idea di fondare un museo della storia era dell’ex presidente del Parlamento europeo, il tedesco Hans-Gert Pöttering. La spina nel fianco di questo Centro è da considerare, secondo me, il Genocidio armeno perché non vogliono includervi i fatti di crimine risalenti al biennio 1915-16 e il periodo storico del museo parte dalla Rivoluzione di Ottobre del 1917. Cioè considerano l’inizio della storia europea del XX secolo la Rivoluzione d’Ottobre. A mio avviso, questa decisione persegue l’obiettivo di ignorare il Genocidio degli Armeni e di conseguenza sopprimere il grosso della I Guerra mondiale per non mettere a rischio i rapporti politico-economici con la Turchia. La cosa interessante è anche il fatto che i dettagli della progettazione della struttura museale si tengano tuttora segreti. Già più studiosi hanno espresso il loro disappunto per questo fatto.
Come è noto, abbiamo in Armenia un museo del Genocidio. Lei è contrario alla vocazione museale. Secondo lei il Genocidio in quanto atto di memoria o pensiero museale quali questioni teoriche o ideologiche provoca?
Io sono contrario alla denominazione museo perché trasformare in museo, secondo il mio modo di intendere corrisponde alla storicizzazione delle esperienze, mentre storicizzare il Genocidio non è possibile perché esso ha una sua preistoria, una storia e le proprie conseguenze che costituiscono il testamento agli eredi delle vittime. Per esempio, la Diaspora è conseguenza del Genocidio; ecco perché non si potrebbe storicizzare i genocidi. Oltre ciò, non si può rappresentare con mezzi museali il Genocidio. Quando parlo di questo argomento mi portano sempre l’esempio del museo dell’Olocausto di Washington ignorando il fatto che non si chiama museo dell’Olocausto ma della memoria dell’Olocausto. Sono due cose diverse. Il fatto di aver chiamato museo quello dedicato al Genocidio in Armenia è una scelta non profondamente contemplata ai tempi sovietici. A mio avviso, è già tempo che alla lotta per il riconoscimento del Genocidio segua l’esattezza nell’uso delle categorie!
Su questo tema che ruolo hanno gli storici che si basano su prove documentali della storiografia?
La storiografia è soprattutto la redazione analitica e l’interpretazione degli eventi del passato, mentre l’approccio – aldilà delle ricerche puramente storiografiche dell’esperienza genocidaria – implicherebbe aspetti psicologici, letterari, filosofici e giuridici. Ciò non significa naturalmente rifiutare le ricerche storiografiche ma trasformare l’argomento in puro dato storiografico e consegnarlo ai libri di storia potrebbe mettere a rischio la memoria pubblica. I libri di storia potrebbero trasformarsi anche nei luoghi della dimenticanza. Gli intellettuali armeni, dagli anni Venti in poi hanno sviluppato una letteratura, che tentava di “pensare dall’alto”. Ma rimasero ignorati, addirittura un autore come Hagop Oshagan o attualmente un autore come Krikor Beledian. Diversamente vengono continuamente pubblicati traduzioni di autori non-armeni, autori spesso turchi, produzioni anche costose, cui livello scientifico o letterario spesso non è soddisfacente. La negazione della Catastrofe ci ha ridotti, “estremizzando”, al rango di “mendicanti” trasformandoci in una collettività in cerca di autenticazione della propria storia. Ogni espressione un po’ coraggiosa in provenienza da qualsiasi esponente della società turca ci trasforma in ammiratori grati, a volte senza neanche analizzare attentamente l’espressione dichiarata.
Invece di incoraggiare lo sviluppo del pensiero armeno basato sull’esperienza della Catastrofe, spesso diventiamo gli adulatori di quei militanti. Senza renderci conto di quel rischio che chiamerei auto-espropriazione della nostra stessa storia.
Cosa intende dire..?
Voglio dire che quando un intellettuale turco, a differenza dell’opinione dello Stato turco, ammette il crimine compiuto, provoca in noi un sentimento di gratitudine, facendoci dimenticare che quegli stessi autori si occupano prima di tutto della propria storia e nei cui confronti hanno una loro responsabilità.
Secondo lei come si può definire oggi l’identità armena?
Noi abbiamo un’identità tradizionale che si concretizza attraverso la lingua, la storia la fede e le tradizioni culturali. Ma quello fondamentale, secondo me, è la memoria collettiva trasmessa attraverso le generazioni, basata sul concetto della memoria del passato e della Catastrofe.
Ma la Catastrofe in fin dei conti è un’esperienza negativa, che risulta materialmente faticosa e per molti moralmente dubbia trasmettere alla generazione dei giovanissimi. Come dovrebbe attuarsi in questo caso la trasmissione?
La gioventù e le generazioni che ci succedono sentono e si approcciano con più determinazione al riconoscimento del crimine. C’è una trasmissione conscia o inconscia del dolore tragico che ci lega con un legame sentimentale profondo, in modo indissolubile e oserei dire eterno.
Vede possibile la riconciliazione tra il carnefice e la vittima?
Come lei sa, ultimamente si parla spesso di riconciliazione, ma i confini di tale riconciliazione non si tracciano in modo identico tra l’esempio dell’Olocausto ebraico e quello del Genocidio degli Armeni. Nel caso degli Armeni il tentativo di riconciliazione viene guardato dal punto di vista di un tentativo da compiere tra due duellanti. Viene seguito l’esempio della riconciliazione tra la Germania e la Francia ignorando che fossero due stati in guerra tra di loro, in una relazione simmetrica. Nel caso del Genocidio la correlazione tra carnefice e vittima è diversa. Si tratta qui della vittima passiva e non del sacrificio di un caduto per l’amore della Patria o della Nazione sul campo di battaglia. Ciò che sbalordisce invece è che non si voglia seguire l’esempio tra la Germania ed Israele, nel caso turco/armeno.
Oggi abbiamo una patria di nuovo indipendente, che si presenta come un polo identitario essenziale. In che solco vanno poste le relazioni Armenia-Diaspora?
Questa è una questione complicata. Secondo me le relazioni tra l’Armenia e la Diaspora vanno basate su nuovi concetti e non soggetti ad un’ideologia univoca e Armenia-centrica. Bisogna considerare le due entità complementari tra di loro e ciascuna con le proprie esperienze. Bisognerebbe concepire un nuovo approccio alla realtà armena in grado di decifrare la nostra presenza. D’altra parte l’Armenia è un’entità territoriale con confini ben delineati. Mentre la Diaspora è una “superficie” il-limitata attraverso le sue reti di comunicazione in attesa della propria riorganizzazione e del proprio consolidamento. A mio avviso, noi abbiamo bisogno di un nuovo concetto che possa plasmare la presenza della Diaspora, il cui fondamento dovrà essere la comunità non in senso religioso ma secolare, di cui fa parte integrante anche la Chiesa. Per l’impegno di una nuova formazione, molto probabilmente l’iniziativa da promotore del Ministero della Diaspora potrebbe giocare un ruolo di supporto importante.
Nota Biografica:
Mihran Dabag, figlio di “Ishkhan” (Principe) Karnig è nato a Diayrbakir (come ama spesso sottolineare). Ha frequentato la scuola cittadina fondata dall’Arcivescovo Karekin Khatchadourian, dove ha imparato la lingua armena. La popolazione locale è kurdofona ma la famiglia Dabag ha sempre parlato dentro le mura casalinghe il dialetto armeno locale. I figli (lui e il fratello) hanno sempre risposto in turco al dialetto armeno dei genitori. Dopo una tappa a Istanbul, si stabilisce in Germania, prima a Bonn e poi Bochum, dove studiò filosofia, scienze politiche e storia. Molti suoi parenti vicini sono state vittime del Genocidio ma i sopravvissuti della famiglia sono sempre rimasti legati e attivi nella vita comunitaria armena. Impressionato dai racconti trasmessi dai propri genitori superstiti ha raccolto localmente circa 140 racconti/dialoghi sull’evento catastrofico e sulle conseguenze. Nel 1994 fonda l’Istituto universitario di studi sulla Diaspora ed i Genocidi che da subito ebbe un grande successo e riconoscimento in Germania. L’Istituto si occupa non solo del caso armeno ma promuove degli studi comparati su tutti gli eventi genocidari. E come lui stesso riporta “… generalmente la ricerca scientifica e storica non può svolgersi senza metodo comparativo”. Oggi l’Istituto viene frequentato da circa 200 studenti che preparano le loro tesi di magistero e di dottorato.